Visto da lassù, il nostro pianeta blu suscita tenerezza, umiltà, fragilità.

Si chiama The Blue Marble: è una delle foto più famose del Novecento.

Siamo alla Vigilia di Natale del 1972 e gli astronauti dell’Apollo 17 fanno un’eccezione alla regola. Il protocollo è severissimo, non possono fare nulla che non sia già stato previsto e debitamente programmato.

Nonostante le severe regole e le note di servizio, possiamo bene immaginare l’entusiasmo di quegli uomini: si affacciano dall’oblò e vengono rapiti da una enorme e consapevole commozione e scattano quella foto memorabile.

La vista di quel globo, circondato dal mare, catapultato come una biglia nel nero dello spazio è qualcosa a cui non si può resistere, deve essere fissato per sempre.

The Blue Marble ci mostra un pianeta che appartiene al mare e ci dovrebbe fare capire quanto siamo piccoli. Quanto siamo vulnerabili.

Consapevolezza.

Gli astronauti ci mandano un segnale che dovrebbe guidarci.

Il Pianeta Blu è la nostra Terra, da tutelare, amare.

E noi invece continuiamo a fare le guerre.

Ed è così che, a distanza di cinquant’anni dalla visione di The Blue Marble, siamo entrati in una cultura della guerra senza nemmeno accorgercene.

Abbiamo continuato a fabbricare armi, sempre più sofisticate e micidiali, e a diffondere e condividere ignoranza e non consapevolezza.

Armi e ignoranza sono i nostri più grandi peccati che ora ci perseguitano e alla fine ci condanneranno.

Avremmo dovuto capire, per la continua lezione che è la Storia, che non siamo nulla. Eppure continuiamo ad ammazzarci in una guerra civile che abita il cuore di troppa gente senz’anima.

“Ogni guerra è una guerra civile, ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita per davvero”. Così scrive Cesare Pavese nel suo La casa in collina.

Ma come si fa uscirne se non con il dialogo? Con il riconoscimento dell’altro? E capire una volta per sempre che siamo tutti figli dello stesso padre e della stessa Terra?

“Solo chi ama conosce. Povero chi non ama!” ci ha ricordato Elsa Morante in una sua poesia.

Dovremmo tradurre il messaggio di riconoscimento della persona attraverso il dialogo con tutti, aperto a tutte le culture. Così potremo riconoscere l’altro che è come noi portatore di diritti fondamentali e universali a prescindere dal suo credo, dal suo colore, dalla sua lingua.

Avvicinarsi allo stesso linguaggio ci permette di parlare di pace, e la pace è la vittoria della ragione sulla violenza.

Siamo dentro una guerra civile nella quale barbari incivili si scannano in un’incomprensibile lingua.

Questi sono i barbari, di ieri e di oggi, genti che parlano una lingua incomprensibile.

E se un tempo crollò la terra di Babele, oggi è a rischio l’intera umanità.

Quando sono intrise di ignoranza, le genti facilmente s’infiammano e così si rendono facilmente influenzabili.

Le immagini di piazza Venezia il 10 giugno del ’40 ci aiutano a farci un’idea. Un’adunata oceanica di donne, uomini e persino bimbi: tutti felici ed ebbri ad osannare un criminale al balcone. E lui tronfio, ignorante, senz’anima, pieno solo di un’idea di presunta e sciocca grandezza, lui, novello Capaneo che urla non sapendo di essere già sconfitto.

“Il potere e la violenza sono tutt’uno”, ci ricorda ancora la Morante.

Pochi sanno o sono convinti di morire, andando alla guerra con una baionetta arrugginita e la divisa fatta di stracci, quando in mezzo alle parate di giubilo ricevono i fiori che le donne lanciano loro. Infausto augurio quei fiori, per futuri morti, sepolti in tombe sconosciute.

E poi, quando toglieremo dal nostro inno, senza offesa, una marcetta di banda paesana – perché questo è – le parole “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”? Parole ridicole, oltre che tragiche.

Ditemi, quando davvero arriverà il momento, saremo sessanta milioni di sordi pronti alla morte?

Come si fa ad inneggiare alla morte in un inno nazionale? In quello che dovrebbe essere il canto principe di tutti noi?

E i morti saranno gli unici ad avere il diritto di chiedere ragione, è vero, gli altri, i potenti sopravvissuti si nasconderanno come sempre dietro le loro ragioni futili e vili.

Un soldato, un uomo in guerra, muore per nulla. I suoi sogni e le sue aspirazioni muoiono con lui. Nel buio dove non esiste più la luce.

La guerra è un fallimento senza se e senza ma, fallimento condiviso che in tutti questi millenni di umanità non abbiamo ancora imparato.

“La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te.”

Rintocchi cadenzati e non troppo lontani, che si fanno via via vicini: forse essa sta suonando per tutti noi, caro Hemingway.

.m