C’era una volta la Signora Pace, che, sempre dolce e gentile con tutti, era tuttavia stanca di essere ignorata. Nessuno si accorgeva del suo lavoro: le case curate, il sonno tranquillo, gli scaffali pieni al supermercato. Un giorno decise così di partire per un viaggio.

La gente si svegliò al mattino con un inspiegabile disagio. Il cielo era rumoroso, aerei volavano via veloci, le finestre tremavano senza vento! I semafori funzionavano con un ritardo impercettibile e così la gente si arrabbiava suonando i clacson, le mani stringevano forte le borse, le bocche erano tirate. Qualcuno disse: “È il tempo che cambia”. Ma non era la nuova stagione: la Signora Pace, non voleva più rigenerare, andare oltre l’inerzia, si era annoiata di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Già, il suo coraggio non c’era più.

La restanza si era trasformata in mancanza. Lei che dava voce agli esseri viventi tutti, lei che dava le buone notti nelle stanze, era partita.

Nel suo viaggio, sul suo passaporto, accumulava timbri dolorosi. A Gaza il timbro aveva forma di scheggia di drone: il cielo era sempre cielo e i soffitti erano crollati tutti. Tra ospedali con lenzuola appese come tende e sguardi vuoti, le dissero che non c’era spazio per lei.

A Mogadiscio, il timbro era sfocato come una fotografia lasciata al sole troppo a lungo, da 30 anni. Lì raccolse un quaderno di scuola con alfabeti mai finiti: “Torni quando avremo tempo per studiare e non per combattere”.

A Kiev non le diedero nemmeno il timbro, dicevano che qualcuno voleva cambiarlo senza permesso. Lì la Signora Pace toccò le finestre senza vetri di una casa abbandonata e vide un tavolo apparecchiato con le posate belle, lasciate lì. “Resta”, le chiesero le sedie. “Ma come posso restare se nessuno sa il mio nome?”, rispose.

A Teheran, tra i bazar millenari, una vecchietta le sussurrò: “Se non vengono i suoi fratelli Diritti, neppure lei può esserci”. E allora la Pace comprese che solo quando ogni persona può essere chi vuole senza obbedienza cieca, lei avrebbe potuto passeggiare con i capelli al vento, nel porgere un fiore di campo.

Nel frattempo, a casa nostra, le posate sbattevano sui piatti, nei condomìni nessuno si salutava più, negli uffici le email sostituivano le parole. La Pace mancava anche nelle cose piccole: nel chiedere scusa, nel ringraziare.

La Signora Pace lasciò dei biglietti nei luoghi visitati.

Gaza: “Torno quando avrete spazio per i nomi, non solo per i numeri di chi ha ucciso di più. Torno quando i corridoi saranno di nuovo strade e le sirene ninnananna.”

Mogadiscio: “Torno quando il mare smetterà di ricordare le partenze. Torno quando il cibo non sarà qualcosa per ricattare, ma normalità in tavola.”

Ucraina: “Torno quando le finestre avranno di nuovo le tende e non ci saranno geografie provvisorie.”

Iran: “Torno quando nessuno dovrà chiedere il permesso per essere chi vuole.”

A casa nostra: “Torno quando vi ricorderete che non sono un arredamento”.

In una stazione si sedette su una panchina con la valigia piena di sogni: ospedali senza sangue, porte aperte, piazze con bambini che giocano. In quel momento una bambina triste le disse “sono sola”, e la Signora Pace rispose: “anche io”.

Finalmente la gente capì: quel disagio era nostalgia di un bene dato per scontato. Qualcuno propose un rito: ogni mattina chiedere “Quale pezzo di pace posso fare oggi?”. Una telefonata invece di un reel, una sedia in più a tavola, un no a ciò che esclude e un sì a ciò che include.

La Signora Pace che era rimasta immobile su quella panchina sentì il suo nome chiamato piano, da molte voci. Allora prese la valigia e si alzò per tornare.

Signora Pace, torna per non andare mai più via. Torna a Gaza, a Mogadiscio, a Kiev, a Teheran. Torna nelle nostre cucine, nei nostri uffici, nei nostri cuori. Perché senza di te questo mondo non ha niente di umano.

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