di michil costa

È una calda domenica pomeriggio. Non è ancora giunto il momento per addentrarsi nella val Mezdì o per guardare negli occhi, senza dover alzare lo sguardo, il Piz Boé, poco distante in linea d’aria dalla cima del Sassongher. Neve e ghiaccio ne rendono difficile l’accesso. Dove larici e cirmoli lasciano il posto a sparuti cespugli i camosci possono starsene tranquilli. L’uomo, per qualche settimana ancora, se ne starà in basso. Per fortuna anche i cacciatori sono uomini….

Decidiamo di fare una passeggiata in valle.  Oltrepassiamo un maso che domina la spianata, un trattore blu elettrico ha preso il posto dei buoi, sembrano mostri preistorici quelle grandi macchine agricole; quel che faceva il contadino aiutato dai cavalli ora viene assolto con minor fatica; la relazione esistente con la vita quotidiana non è più come allora, ma senso e ragione non sono cambiati; la terra vuole e deve essere coltivata ancora con dedizione e passione.
Quel che era uno splendore di maso è abbandonato, con i vetri rotti e il bel portone gotico in sfacelo. Un tempo si costruiva in modo adeguato e funzionale; soprattutto non si consumava il suolo, i campi erano la ricchezza, la malattia del mattone era ancora di là da venire.
Immagino bambini chiassosi, tra maialini e vitelli appena nati, a fare dispetti alle capre e a rincorrere le oche. La sera, mentre i maschi ultimavano i lavori in stalla, le donne e i più piccoli si raccoglievano nella calda stube. Erano sempre famiglie numerose, sempre c’era un gran fermento: si rammendava e si cuciva, i piccini erano attratti dai disegni dei libri unti e usati mille volte; iniziavano ad assegnare voci e nomi alla quotidianità della vita. Poco tempo dopo, mentre avrebbero aiutato a fare il fieno quelle scarne parole sarebbero uscite lievi come fiocchi di neve.
Ora è solo anche il gatto, annoiato è seduto sul davanzale, erbe rampicanti stanno coprendo il vecchio muro. Ogni luogo già visto va osservato, carpito, indagato. Solo così si recupererà parte della sua identità. Tento di cercare l’anima dentro quel camino. L’acre odore è tutto quel che rimane di quel pezzo d’arte povera che poche volte l’anno sfornava pagnotte. Dure squisitezze contadine che non mancavano mai sul tavolo di ogni famiglia. Con l’assurda legge dello spostamento di cubatura quella casa cadrà, e con lei un pezzo di identità tirolese di questo posto baciato da Dio.
Siamo oramai prossimi all’abitato. Case in fila, senza stile, senza espressione. Un freddo acciaio contrasta con l’asettico e impersonale alluminio. Un cane alla moda con in testa un fiocco rosa rincorre i bimbi nel piccolo giardino dal prato inglese. Una siepe di legno chiaro, mi ricordano quelle di Big Jim solo un po’ più grandi, divide territorio e uomini, vite e storie.
La mamma di tre irrequieti bimbi, forse leggendo nei nostri sguardi la sotterranea disapprovazione ci lancia uno sguardo arcigno.
Ci emozioniamo alla vista di un bel balcone proprio di fronte a tutta quella bruttura. È lineare, elegante e funzionale. L’ampio tetto ha belle scandole, irregolari e consumate dal tempo. Il vecchio legno bruciato da milioni di ore di sole ricopre la parte superiore della casa padronale e mette ancor più in risalto i rossi gerani. Il muro sottostante si allarga verso il fondo, irregolare e pieno di fascino. La voce di pietre antiche ripete all’infinito risa e pianti di generazioni passate. Una vecchia donna stende lenzuola rammendate mille volte; ci vede, e ci saluta.
All’antica casa hanno aggiunto sgraziatamente della cubatura; non ho altri termini per quella specie di cosa quadrata piena di verande e verandine, finestre e finestrelle alcune oblunghe altre tonde ma tutte e dico tutte con delle oscene tapparelle color salmone giusto per non dimenticare il nostro rapporto malato con lo spazio e col tempo. L’accozzaglia è una sintesi dissennata che spazia dai trulli della Sagrada Famiglia a fasulli elementi da Disney World.
Nel paesino di montagna il progresso incalza. Un giovane lava quel che dev’essere un bolide con una lunga antenna. Tutta la vita è una questione di priorità. Proseguendo nel nostro cammino rimaniamo attratti da altri masi che ancora pulsano di vita, dagli orti ben fatti, dall’armonia delle forme. Una parabolica sul tetto coperto di pannelli solari riflette fastidiosamente e paga il suo obolo alla modernità, l’esigenza degli abitanti mi costringe a esclamare: “peccato”. Rimaniamo allo stesso modo sconcertati da un cubo con un portone a cipolla: dal tetto escono una serie di loggette. Appena si apre una finestra capisco: è una casa per uomini.

Questo ormai è diventato il nostro Südtirol: una natura meravigliosa con tanti angoli da cartolina in alternanza con brutture incredibili. Certo, ci si abitua, a tutto, siamo talmente immersi in pensieri altrove che i non luoghi fanno parte oramai, anche loro, dei nostri luoghi.
Perfino l’ex ambientalista Reinhold Messner la pensa così. Poche settimane fa ha detto testualmente: “quel chiacchierone di Michil Costa abita in un albergo completamente realizzato in cemento armato, una delle più brutte strutture di tutte le Dolomiti” (guarda). Chiamiamoli punti di vista.

Se non riusciamo a recuperare un po’ di bellezza non ci salverà certo il comodo garage ad apertura telecomandata. La nostra ricca provincia ha fatto strade, ponti, acquedotti, ci aiuta a star bene. Ma la sua mania di grandezza ha tolto l’identità ai paesini, palazzi comunali sovradimensionati e strutture pubbliche che si riempiono di vita per pochi giorni all’anno contribuiscono a cancellare le radici profonde della memoria storica.
Se non riusciremo a tenere insieme brandelli di storia e di umanità che il tempo, senza chiedere concessioni, comunque disfa e polverizza, ci abitueremo a poco a poco, senza accorgercene a un mondo senza incanto. Se non riusciremo, a preservare le vecchie case, a fare rivivere i forni del pane, gli antichi sentieri, le piazzette di paese, i larici secolari, i luoghi di vita e di cultura, non riusciremo a compiere un viaggio dentro noi stessi. Dimenticheremo chi siamo stati e ci uniformeremo. Non sapremo più fare un’analisi interiore. Musealizzare tutto, come da più parti si sta facendo, non è la strada giusta. E non lo è nemmeno indulgere alla nostalgia. Solo con comportamenti aperti e ricettivi, comprendendo e attualizzando la vita nelle valli ladine e nel nostro Südtirol, con interventi dolci e delicati, avremo la possibilità di rendere ancora attraente e suggestivo il nostro paesaggio, dove si incontrano storia e lavoro, natura e cultura. Steiner diceva: “bisogna fare tutto con uno stato d’animo predisposto alla dolcezza” ed è ciò che bisognerebbe fare per non smarrire la memoria e per creare condizioni felici non solo per chi avrà voglia di venire in vacanza, ma per noi e per la qualità della nostra vita. Ci diamo la mano e proseguiamo, con un sorriso. Perché, nonostante tutto, sarà sempre e sempre ancora un sorriso a salvare il mondo

E ora, la buona notizia: il Tar ha definitivamente bloccato la strada di Antersasc (leggi Il nostro pensiero del 01/10/10). Vi ringraziamo dei tanti messaggi che ci sono pervenuti. La strada la voleva la provincia e la voleva anche l’amico intimo del capo della provincia e dei cementificatori, il faccendiere Reinhold Messner. Quanta tristezza.